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Isola d'Ischia: le origini del nome

Arime, Inarime, Pithecusa, Enaria, Insula, Iscla Maior, Iscla. Questi i nomi, sino all’attuale Ischia, con cui è stata definita l’isola nel corso dei secoli

Da un punto di vista filologico si possono seguire due percorsi, tra l’altro, non in rapporto di mutua esclusività:


(i) la tendenza alla rielaborazione mitica degli eventi storici e naturali, propria della letteratura greco - romana, spiega i cambiamenti nella denominazione del territorio;

(ii) i diversi nomi sono soltanto l’evoluzione in forma ellenizzata di uno stesso toponimo indigeno.


Oggi questa seconda ipotesi è la più accreditata derivando l’identità dei topos "Arime", "Inarime", "Pithecusa", "Aenaria" dall’equivalenza dell’etrusco "arimos" con il greco "pitecos". Non di meno, bisogna partire dalla prima ipotesi per dare sintetica traccia della presenza di Ischia nella letteratura classica.

Il primo a utilizzare il termine “Arime” fu Omero nel secondo libro dell’Iliade. Il poeta greco utilizza l’agitarsi di Tifeo, flagellato da Zeus in Arime o fra gli Arimi, come similitudine per descrivere la preparazione di soldati e navi achee alla volta di Troia. Gli Arimi erano probabilmente una regione montuosa dell’Asia Minore (Turchia), alcune fonti storiche sotengono una popolazione alleata di Troia, spesso interessata da fenomeni sismici e vulcanici. Probabile allora che i primi coloni greci abbiano voluto attribuire uguale denominazione ed uguale mito fondativo all’isola d’Ischia, anch’essa interessata da frequenti scosse ed eruzioni.


L’etimo di “Pithecusa” rimanderebbe invece al greco “pithecos. Dunque, isola delle scimmie. Il poeta romano Ovidio spiega il termine ricorrendo al mito letterario dei Cercòpi, due briganti dell’isola di Eubea, che, per essersi fatte beffe di Eracle (Ercole è la figura corrispondente nella mitologia romana) furono trasformati in scimmie e spediti sull’isola Pithecusa da Zeus. Qui è probabile che la vicenda mitica serva a rappresentare i locali abitanti dell’isola, prima dell’opera di colonizzazione dei greci, come selvaggi dediti alla rapina e al malaffare. Tuttavia, il ritrovamento del frammento di un vaso dell'VIII secolo a. C., raffigurante una scimmia in ginocchio, che si tiene la testa tra le mani e di cui è visibile la coda, lascerebbe supporre un’effettiva presenza delle scimmie sull’isola e spiegherebbe, inoltre, l’uso indistinto, sempre in Ovidio, del singolare e del plurale (Pithecusa/Pithecuse) nella denominazione del territorio.

Secondo la ricostruzione filologica di Plinio, più aderente alla realtà, l’etimo esatto sarebbe invece "pithoi",  quindi, vasi, anfore, giare. Ne segue che Pithecusa andrebbe tradotto, grosso modo, come "Borgo dei Vasai". Questa ricostruzione ha l’indubbio merito di rendere conto dell’importante produzione di vasellame in terracotta dell’epoca greca, ampiamente documentata dai ritrovamenti archeologici degli anni ‘50 del secolo scorso sull’isola.

È invece Virgilio, nell’Eneide, ad utilizzare il termine "Inarime", sostituendo l’omerica evocazione dei guerrieri achei in marcia contro Troia con la caduta al suolo del gigantesco condottiero Bizia, seguace di Enea, morto nella battaglia contro i Rutuli. Il tonfo del gigante fu tale da far tremare Inarime, posta sopra Tifeo. La succesiva denominazione "Aenaria" rimanderebbe, a seguire il filone mitico, alla figura di Enea, approdato sull’isola - anche se non vi è chiara traccia di questo nei testi di Virgilio - nel suo viaggio da Troia nel Lazio. Altre fonti storiche fanno invece derivare i termini Inarime ed Aenaria dal greco “Oenaria”, che significa luogo delle viti, del vino, così rintracciando nell’etimologia del nome l’antichissimo legame tra la viticoltura e l’isola.

Il toponimo "Insula" o "Iscla Maior" compare invece per la prima volta nell’812 in una lettera del Papa Leone III all’imperatore Carlo Magno, nella quale il pontefice denunciava le condizioni di saccheggio e di abbandono in cui versava l’isola a seguito di un violento attacco dei Saraceni, senza che nessuno dalla vicina Napoli fosse occorso in aiuto dei locali. Interessante come la denominazione Insula - Iscla Maior, serva a distinguere l’abitato del Castello (Castrum Gironis) dal resto dei villaggi presenti sull’isola, evidenziando come il primo avesse vita e rappresentanza altre dai restanti casali dell’isola. Da qui si sarebbe poi approdati, per successiva contrazione del topos Insula (Insula - Iscla) all’odierno Ischia.

 

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