La concezione armonica e circolare del tempo è senza dubbio l’aspetto più interessante della vita dei campi, quella su cui si fonda tutto il "sapere" dell’identità contadina, che procede sempre per "induzione" dai particolari della cura del terreno alla più generale visione della vita, dei rapporti sociali e della morte.
C’è un bel libro, "Merecoppe - Storie di miseria e di grazia nelle terre di Ischia" di Nino Caparossa (Giovanni Antonio Mattera) che spiega benissimo, attraverso cinque racconti, la "visione del mondo” dei contadini ischitani che abitavano il versante sud dell’isola (Serrara Fontana e Barano), il più accidentato e lontano dalla costa.
Sono storie dalla trama semplice e agile, nelle quali l’autore - come evidenziato in maniera efficace dall’antropologo Ugo Vuoso nella postfazione del volume - ci restituisce un importante lavoro etnografico, ripercorrendo i luoghi della sua infanzia e descrivendo in maniera puntuale i processi lavorativi che scandivano le giornate nei campi.
In particolar modo il secondo racconto "Sete" che descrive la giornata e, con essa, la vita di Lumminico (Domenico), un contadino al servizio di un ricco notabile del paese, che sin dalla tenera età e per tutto il resto della sua esistenza, non fa altro che svolgere le stesse mansioni, secondo una ritualità antica, ma tutt’altro che semplice.
Svegliarsi all’alba e ritirarsi al tramonto; stare nella terra l’intero giorno; dar da mangiare agli animali; occuparsi dell’approvigionamento e della manutenzione del pozzo; smuovere periodicamente il terreno per garantire che il vigneto respiri. E ancora, dividere la giornata lavorativa in due momenti: la "matinata" (dalle 5 alle 12) e la "serata" (dalle 14 alle 21), garantendo in questo modo ai braccianti di poter servire nello stesso giorno due padroni.
Tutto è già scandito e preordinato: dalla "marenna", alle 9.00 del mattino, con pane raffermo, insalata di patate, cipolle e pomodori fino al pranzo, o "morsicone", con il privilegio di un buon bicchiere di vino ad accompagnare il solito pane secco e una caciotta di formaggio salato.
La morte, che raggiunge inaspettata Lumminico mentre si riposa all’ombra di una pianta nel terreno appena lavorato, realizza quell’idea di conclusione del ciclo, di eterno ritorno alla natura, che è alla base di quella concezione circolare del tempo cui si è accennato all’inizio e che, nel caso del racconto, è più che una metafora.
Questa visione, che di per sé è più vicina al paganesimo, con una rappresentazione all’apparenza passiva, tutta in mano al fato dell’esistenza, affronta invece la questione dirimente, non solo per la dottrina cattolica, del "libero arbitrio", dal momento che Lumminico, in qualche modo, sceglie di servire il suo padrone, è persino contento della sua condizione di servo.
L’invocazione serena al Signore che il contadino fa un momento prima di spirare, è forse l’elemento più carico di significato dell’intero racconto, rivelatore di come nel sentimento popolare di fede convivano, si fondano, elementi diversi: destino e scelta, uguaglianza (ritorno alla terra) e gerarchia, come riconoscimento del principio di autorità (il padrone, Dio).
Di seguito alcuni stralci del bel racconto:
Quella mattina Lumminico si svegliò alle quattro. [...]
L’alba era particolarmente luminosa e davvero più rosata del solito, ma Lumminico non se ne accorse. Mai nella sua vita si era accorto dell’alba: albe, tramonti, sere, non erano altro che la sua giornata di lavoro. Per lui esisteva il giorno ed esisteva la notte. Lavorare e dormire, nient’altro. [...]
Quanto Lumminico aveva, lo doveva al padrone: il cibo che mangiava e il materasso riempito con cartocci di granturco sul quale poteva distendersi. Senza dimenticare che, cinquant’anni prima - quando aveva sette anni - Don Francisco lo aveva prelevato dall’orfanotrofio della Nunziata e gli aveva concesso di diventare il suo garzone. Per tutto questo Lumminico era riconoscente e, sotto sotto, era anche soddisfatto di essere l’uomo di fatica di un ricco possidente [...]
Il lavoro che si apprestava a fare quella mattina non aveva nulla di straordinario se non che veniva effettuato sempre nel mese di luglio, quando i terreni soprattutto quelli coltivati a vigneti, avevano bisogno di una rinfrescata [...]
Arrivati i tre braccianti, Lumminico indicò il terreno da lavorare e, per dare il buon esempio, si schierò accanto a essi [...]
Nel silenzio delle prime ore del mattino, si percepiva soltanto il tintinnio delle zappe che sembravano manovrate da un mezzo meccanico. A muoverle sincronicamente erano invece le braccia di quattro uomini, curvi per la fatica, in un polverone accecante e sotto un sole che già cominciava a bruciare i volti e le schiene. Quando l’orologio della chiesa suonò le nove, Lumminico corse a casa di Don Francisco per prendere la marenna: fave secche cotte con cipolla e concentrato di salsa di pomodoro, insalata di patate, cipolle e pomodori, un pane vecchio di dieci giorni [...]
Da bere la solita bevanda, niente vino. Il vino no, sarebbe potuto essere pericoloso: una zappata vibrata male equivaleva a una vite tagliata. Il vino l’avrebbero bevuto al termine della matinata, per accompagnare il morsicone. [...]
Ormai i contadini avevano terminato il lavoro. Il pezzo di terra, lavorato di fresco, sembrava vellutato. I verdi pampini di viti e le piante da frutto, incipriati di polvere e zolfo, proiettavano ombre sulla superficie rimossa. [...]
Costeggiando le rare ombre lungo il terreno, i quattro si avviarono verso la cantina per consumare il morsicone: qualche fetta di pane stantio, pochi pezzi di duro e salato formaggio casereccio, una bottiglia di vinello. [...]
Finalmente era finita anche la sua matinata. [...]
Lumminico andò a distendersi sul terreno zappato di fresco, all’ombra di una pianta. [...]
E, in quella quiete, in quella terra più sua che del padrone, quasi si inumò, con gli occhi spalancati al cielo azzurro, la bocca semiaperta in un sorriso ottuso [...]
Gli sarebbe bastato dormire un’ora, un’ora soltanto [...]
«Lummì!» [...]
«Licite’, patrò», soffiò amaro a un lombrico attorcigliato su una foglia, poi senza forza, affondò pesantemente la nuca nel terreno. [...]
«Lummì Lummì!», ancora la voce, questa volta più chiara. No, non era il padrone ad avere bisogno di lui.
«Chi sì?» [...]
«Lummì! E mo’ dormi!» [...]
«Signore!», rantolò Lumminico chiudendo gli occhi.
(tratto da Merecoppe, Storie di miseria e di grazia nelle terre d’Ischia, di Nino Caparossa Imagaenaria editore, 2002)