“Quando nella piena luce del giorno io apro gli occhi, non è in mio potere di scegliere se vedrò o no, o di determinare quali particolari oggetti si presenteranno alla mia vista; e così per l'udito e per gli altri sensi, le idee impresse su di essi non sono creature della mia volontà. Vi è perciò qualche altra Volontà o Spirito che le produce”.
Trattato sui principi della conoscenza umana di Georges Berkeley (1710)
George Berkeley (1685 - 1753), insieme a John Locke e a David Hume fu uno dei padri dell’empirismo inglese. Famoso come teorico dell’immaterialismo e per la massima “esse est percepi”, Berkeley riteneva che oggetto e percezione dell’oggetto coincidessero o, detto altrimenti, che la realtà si riducesse all’idea che di essa ne abbiamo come individui. Lungi però dall’accettare che la realtà fosse un processo storicamente e socialmente determinato, egli riteneva che l’attività percettiva fosse indotta in noi da Dio, soprattutto per quel che riguarda le cose naturali sulle quali lo spirito umano non ha nessun potere.
Attraverso questa tesi Berkeley confermava insieme l’esistenza di Dio e l’utilità della scienza, cui spettava il fondamentale compito di rivelare la "grammatica dei segni" divina, abiurando però a qualsiasi deriva materialista. Non è un caso allora che del suo soggiorno sull’isola d’Ischia, tra giugno e settembre del 1717, Berkeley annotò soprattutto le bellezze naturali, perché tale precedenza descrittiva era assolutamente coerente con l’impostazione filosofica secondo cui la natura è pensiero, azione e volontà di Dio.
Il 1 settembre 1717, da Testaccio (Barano d'Ischia) nell’isola "Inarime" il filosofo irlandese scrive a Lord Percival, dotto amico e divulgatore delle sue teorie filosofiche presso i circoli intellettuali inglesi:
“Vostra Signoria conosce bene altre parti d’Italia, ma forse ignora l’isola d’Inarime (ora comunemente detta Ischia). Rimane a circa sei leghe dalla città di Napoli, a sud-ovest: ha un perimetro di quasi diciotto miglia, conta sedicimila anime, l’aria è temperata e salubre, la terra estremamente fertile. Mele, pere, susine, ciliege [...] albicocche, pesche, mandorle, fichi, melograni e tanti altri frutti che non hanno un nome inglese, insieme alle viti, al frumento e al granturco ricoprono quasi l’intera isola. La frutta, che è ovunque alla portata di tutti, senza recinzioni, dà così alla campagna l’aspetto di un enorme frutteto. Solo alcuni punti sono coperti da castagneti e altri boschetti di mirto. Non c’è nulla di più favoloso delle forze della natura. Montagne, colline, valli, piccoli campi pianeggianti, tutti fusi insieme in varietà selvaggia e stupenda. Le colline, quasi tutte, hanno le cime ricoperte di viti. Può credere che le viti sono eccezionalmente numerose nell’isola se Le assicuro che non si producono meno di sessantamila hogsheads (botti) di vino l’anno in un luogo così piccolo”.
(tratto da Viaggiatori ad Ischia, Appunti di viaggio di Berkeley, Valentino Editore, 2005)
In un’altra lettera del 22 ottobre 1717 Berkeley scrisse da Napoli al famoso poeta inglese Alexander Pope, descrivendo così l’isola:
“L’isola Inarime è un epitome dell’intero territorio compreso in un perimetro di diciotto miglia, una stupenda varietà di colline, vallate, rocce frastagliate, pianure fertili e aridi montagne, tutt’insieme in una fusione romanticissima. L’aria, nella stagione più calda, è sempre rinfrescata dalle brezze marine. [...] Le valli producono ottimo frumento e granturco, ma soprattutto sono ricche di vigne e frutteti. [...] Corona la scena una grossa montagna che spicca nel centro dell’isola [...] la fascia centrale fa da pascolo alle greggi di pecore e capre; la cima è un sabbioso picco appuntito, dove si ha la più bella veduta del mondo, perchè oltre alle isolette lì attorno si afferra con un solo sguardo tutto il tratto d’Italia che, lungo trecento miglia, va dal promontorio di Antium (Anzio) a Capo Palinuro”.
(tratto da Viaggiatori ad Ischia, Appunti di viaggio di Berkeley, Valentino Editore, 2005)
In entrambe le lettere non mancano osservazioni interessanti sul carattere focoso degli isolani col rammarico che “se fossero privi di spirito vendicativo come lo sono di avarizia e di ambizione, potrebbero corrispondere a quanto hanno immaginato i poeti per l’età dell’oro”. Ne esce fuori un affresco interessante che, a distanza di quasi trecento anni, per un verso è ancora attuale, per l’altro, vivifica immagini di un passato lontano, selvaggio, di cui nel presente non c’è più traccia.